Roberta
Gio 4 Maggio 2017
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Breve racconto realizzato da Simona Mortarino
Felis Catus stava compiendo il giro di ronda quotidiano, aveva appena marcato con le unghie il vecchio tronco ormai quasi privo di corteccia in quel punto così “usurato”; era appena passato Giotto, l’anziano randagio tigrato, come ogni mattina.
Era inverno, c’era la neve e la parte nera del suo manto era particolarmente in contrasto con lo sfondo bianco del paesaggio, ma quell’uccellino non se n’era accorto. Non che Felis Catus avesse fame - aveva appena mangiato mezza bustina delle sue preferite, era stato amore a primo assaggio quando Giada gliel’aveva presentata nella sua ciotolina rossa. – No, Felis non aveva fame, era altro a muoverlo ed eccitarlo: l’istinto di caccia.
Acquattarsi, puntare con orecchie e vibrisse in avanti. Osservare, attendere, prepararsi e via! Uno scatto fulmineo e l’uccellino era tra le sue fauci. Non era morto sul colpo, serviva tramortirlo con le zampe anteriori compiendo quella sequenza di azioni che gli umani usavano definire “giocare con la preda” e considerare crudele.
Che strani questi umani. Tendono a considerare il gioco come un qualcosa di quasi inutile, finto, forse stupido. Invece no, il gioco è funzionale alla sopravvivenza, è una fase, è preparazione, allenamento e affinamento. Giada lanciava spesso la pallina a Felis Catus in casa, lui la rincorreva, la prendeva e poi la sbatteva con le morbide zampe. Un momento divertente per Giada, un momento eccitante, impegnativo e soprattutto fondamentale per Felis Catus. Grazie a questo piccolo rituale, il micio si manteneva vigile, ciò gli consentiva di cacciare efficacemente e di contribuire al mantenimento della famiglia. Per fortuna Giada conosceva le caratteristiche specie-specifiche dei gatti, sapeva che quello era un comportamento naturale e istintivo per cui non bisognava assolutamente sgridare l’animale. Quando Felis Catus si presentava con il cadaverino sull’uscio di casa, infatti, lei teneva dentro di sé il dispiacere per la bestiola catturata, mostrando a Felis Catus sempre un misto di contentezza e gratitudine, condito con carezze e parole lodevoli. Chissà però dove veniva stivato il bottino? Non importava, Felis Catus era riuscito a catturare la preda anche questa volta e, con fierezza, si diresse verso la sua abitazione pregustandosi le feste della compagna di vita umana.
Giunto alla porta, il micio poggiò l’uccellino senza vita sullo zerbino ed entrò in casa attraverso la gattaiola. C’era qualcosa di diverso, di nuovo: un maglione rosso per terra, sul tappeto, vicino al divano. Felis Catus s’immobilizzò sgranando gli occhi, non era impaurito, ma guardingo e incuriosito. Si adagiò sull’addome, allineando le meravigliose zampette bianche. Felis Catus era uno spettacolo: giovane e robusto (otto mesi di età), pelo lungo, nero su dorso
e coda, la parte bianca partiva dalla metà inferiore del muso per estendersi in una sorta di morbido bavaglio; insieme alle vibrisse intorno al naso molto lunghe e leggermente curvate all’ingiù, questi erano tratti somatici tipici del Norvegese delle Foreste. Gli occhietti erano vicini e tondeggianti, il nasino nero all’insù. Adorava giocare con altri gatti, non soffiava né ringhiava poiché non si sentiva quasi mai minacciato o spaventato; mostrava qualche titubanza solo quando incontrava Rowan, la gatta grigia del vicino, sicuramente a causa della sua aggressività pungente. Ma il problema era di Rowan, non certo di Felis Catus.
Il maglione rosso emanava un odore sconosciuto, intenso, acre ma allo stesso tempo dolciastro. Felis Catus si alzò e vi si avvicinò. Arricciò il naso, aprì leggermente la bocca così da aspirare i feromoni distribuiti sull’indumento. Non c’era dubbio, appartenevano a un gatto, un nuovo potenziale amico!
Volse lo sguardo a Giada, che stava in ginocchio vicino a lui, in trepida attesa. Felis Catus conosceva la sua compagna umana, quando emanava quelle vibrazioni significava una cosa sola: una sorpresa in arrivo. Le fusa partirono in automatico e Felis Catus si ritrovò, quasi senza accorgersene, a strusciare la guancia sul ginocchio della ragazza. “Tesoro mio!” sussurrò lei accarezzandolo, “Noto che ti garba l’odore di questo micio. E’ un cucciolone, come te, ha il manto grigio argentato e gli occhioni vispi! Non ho ancora trovato il nome adatto. Mi aiuterai tu, vero?”.
“Mrao”.
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